“Un conto è la campagna elettorale, un altro è governare”. Sentiamo ripetere questa frase – con tutte le declinazioni linguistiche possibili che, a vario modo, esprimono la stessa idea di fondo – che per poco non abbiamo iniziato a crederci.
Il concetto è questo: in campagna elettorale è permesso dire e promettere di tutto per guadagnare consensi, ma poi, una volta al potere, ci si deve conformare ad una linea istituzionale comune.
E il vero paradosso è che tutti i partiti e movimenti continuano ad ricorrere al termine “cambiamento” nei i loro comizi e slogan, semplicemente perché studi di marketing politico hanno dimostrato che il semplice utilizzo di quel termine riesce ad incrementare di una percentuale – minima, ma sicura – i consensi elettorali.
La gran parte di politici, giornalisti, commentatori e opinionisti illustri sono convinti – e, quel che è peggio, tentano di convincere chi li ascolta - che sia naturale non poter dar seguito alle promesse della campagna elettorale, che bisogna rendere conto all’Europa, ai conti pubblici, al mercato economico, agli investitori, alla delicata situazione internazionale.
Osservando con attenzione, ad esempio, proprio il tema dei rapporti con l’Unione Europea, si rileva che le opposizioni sono cresciute in questi anni additando come servi dell’Europa i governi che si sono succeduti. Si è perfino minacciato da più parti un referendum per l’uscita dalla moneta unica – cosa, peraltro, incostituzionale. Eppure, all’indomani delle elezioni, solo una forza politica sembra essere rimasta ferma sulla linea dura contro i burocrati di Bruxelles. E questo ha permesso un aumento del gradimento nei sondaggi. Tutti gli altri leader, invece, si sono premurati di rassicurare le élite europee, e i relativi mercati finanziari, sulla loro politica di considerazione dei Trattati e delle Direttive imposte, a scapito della loro reputazione su scala nazionale.
Al di là del singolo argomento, ciò che manca è una presa di coscienza politica dei singoli elettori che dovrebbero imporre ai propri rappresentanti di perseguire le proposte che hanno promesso (e qualche volta urlato nelle piazze) durante la fase della ricerca del consenso elettorale.
Questo condurrebbe a due conseguenze positive: da un lato che l’elettore sia soddisfatto dei propri rappresentanti non solo per simpatia ma per l’apprezzamento del lavoro da questi svolto, dall’altro che gli eletti posseggano preparazione e serietà nel proporre programmi ambiziosi e allo stesso tempo realizzabili – con l’auspicio che le idee, le proposte politiche serie e il bene del Paese valgano di più di un vitalizio, di una poltrona, di un voto.
Discorso banale e ingenuo? Può darsi, ma occorre tornare alla bontà iniziale della democrazia, della rappresentanza e del “bene comune”, se non si vuole lasciare la politica a slogan di basso rango e a politic(ant)i improvvisati, falliti nei propri settori professionali e che ripiegano nella politica per trovare un’occupazione (e un prestigio?) altrimenti irraggiungibili.
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