I can’t breathe – “non riesco a respirare”. Non ci riesce nessuno di noi, guardando quelle immagini. George Floyd immobilizzato con un ginocchio sul collo, per quasi nove minuti, da un poliziotto americano – un nuovo video mostra che erano in quattro a stargli letteralmente addosso, mentre era sull’asfalto, faccia a terra.
È davvero difficile comprendere, in questi casi, se sia la rabbia o il disgusto a prevalere. Non si riesce a capire davvero il motivo di quell’accanimento, contro un ragazzo già inerte, immobilizzato, che chiede gli sia permesso di respirare – please, please, please, si sente in uno dei video pubblicati dai passanti. Sono immagini che tolgono il respiro, così come lo hanno tolto a George, fino a causargli la morte.
Il poliziotto, Derek Chauvin, è stato arrestato e accusato di omicidio. Era il minimo, ok. Ma George è morto. Poliziotti onesti che sacrificano la propria vita per il bene della comunità spesso si vedono infangati dal risalto mediatico di quella sparuta parte di poliziotti scorretti che abusano del potere e della divisa.
George era nero. E oggi, le proteste per quel gesto di Chauvin, mosso più dal razzismo che dal senso del dovere, stanno dilagando in diverse città degli Stati Uniti. A Minneapolis i manifestanti, durante la prima, immediata manifestazione di protesta, hanno dato alle fiamme un commissariato di polizia. Violenza chiama violenza, purtroppo. Ma non sempre, per fortuna. Ed infatti, in queste ore, stiamo assistendo alla dimostrazione che il punto non è il lavoro che si svolge, ma il senso di responsabilità che si usa: poliziotti schierati davanti a sedi istituzionali si stanno inginocchiando insieme ai manifestanti per solidarietà e rispetto di George. Un gesto simbolico che conferma che qualche mela marcia va isolata, biasimata, denunciata, condannata.
Tuttavia, non credo che l’unica questione sia quella razziale. Certamente in molte città, in America e non solo, il colore della pelle incide ancora sull’opinione di una persona. È questo un problema sociale mai veramente risolto.
Ma l’attenzione va puntata anche sull’esercizio del potere. Chi ha il permesso di decidere sulla libertà personale – usando anche la forza, se del caso – deve essere un individuo equilibrato.
Chauvin si è eretto a poliziotto, giudice ed esecutore. Ha stabilito in quel momento che Floyd non era un uomo, ma un reietto della società da immobilizzare, condannare e punire. Ha abusato del proprio ruolo, del proprio potere e ha considerato inferiore una persona perché nera, perché ubriaca, perché delinquente o, forse, semplicemente per presunzione. Presunzione culturale, presunzione intellettuale, presunzione morale.
E allora rabbia e disgusto sono sensazioni alla pari. Nessuna prevale. Entrambe ci sopraffanno, ci tolgono il respiro. Siamo arrabbiati e disgustati da Chauvin, da quello che rappresenta: un uomo che si considera superiore rispetto ad un altro uomo, ormai fisicamente sottomesso.
Se a qualcosa deve servire questo episodio e il ricordo di George Floyd è di non farci dimenticare questo stato d’animo – questa rabbia e questo disgusto – quando qualcuno ci chiederà aiuto, quando saremo noi a ricoprire un ruolo gerarchicamente superiore rispetto ad altri. Quando il nostro ruolo e il nostro comportamento incideranno sulla vita o, semplicemente, sulla dignità di qualcuno – nel massimo rispetto delle leggi e della sicurezza – ricordiamoci di lasciar respirare le persone che abbiamo di fronte, perché tutto quello che facciamo può comunque essere compiuto con una costante, indispensabile attenzione al senso di umanità.
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