Il termine più abusato delle ultime settimane sembra essere "merito". Il perché è presto detto: il nuovo Governo a guida Giorgia Meloni ha rinominato il Dicastero che si occupa di scuola e istruzione in "Ministero dell'Istruzione e del Merito", proprio a voler puntualizzare il valore di una tale connotazione già nella scuola, per preparare il terreno ad un'auspicabile introduzione della meritocrazia anche negli ambienti lavorativi.
Ne sono seguite critiche aspre da parte di chi considera quella parola una chiara propensione all'ineguaglianza della scuola e dell'istruzione. Secondo questi critici, la parola merito finisce col danneggiare alcuni e premiare altri, in una maniera che considerano arbitraria e casuale, creando di fatto un ambiente di diseguaglianze.
A ben vedere, quella di chi sostiene che premiare chi si sforza di più, chi sacrifica il proprio tempo a studiare e ad interpretare al meglio il proprio ruolo non meriti di essere gratificato più degli altri, rappresenta un’interpretazione che determina una forzatura linguistica e logica evidente.
Ma poi, mi chiedo, non è forse già così a scuola? Non siamo abituati, nelle classi, a misurarci con un giudizio, un voto dell'insegnante di turno? E non è quel giudizio frutto di un confronto – i più bravi la chiamano sana competizione – tra i compagni di classe? L’esito di quel confronto (del compito, dell’interrogazione, della tesina, del rendimento scolastico) comporta una gerarchia meritocratica. Si termina ogni ciclo scolastico con un voto che distingue il rendimento del singolo studente in quegli anni, evidenziando una sorta di classifica volta a gratificare chi ha fatto meglio. È così da sempre, piaccia o non piaccia.
Questo sistema - che pure può legittimamente essere oggetto di critica, ma non in questa sede - non è mai stato messo in dubbio, a mia memoria, da quanti oggi muovono perplessità rispetto all'affiancamento del sostantivo “merito” al nome del Ministero dell'Istruzione.
La vera battaglia sull’uguaglianza, semmai, dovrebbe concentrarsi sulla garanzia di fornire a tutti gli studenti strumenti che permettano loro di concorrere alla pari, facilitando al massimo la loro frequenza scolastica, senza che eventuali situazioni familiari, economiche e sociali inficino il loro legittimo accesso all’istruzione e alla formazione.
Eppure, con una palese storpiatura del senso delle parole, i commentatori ostili al merito nella scuola hanno voluto rappresentare quel sostantivo come sinonimo di disuguaglianza. Un po' difficile da dimostrare, considerato che tra tutti i sinonimi di merito non figura nulla che riporti alla disuguaglianza. L'enciclopedia Treccani inizia così la definizione di merito: "Il fatto di meritare, di essere cioè degno di lode, di premio […]". Nulla, quindi, che riguardi la diseguaglianza.
Tutt'al più, è la realizzazione di un processo che riconosce ai sacrifici di qualcuno un ritorno, che può consistere - citando ancora la Treccani - "nel diritto […] all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa". Nulla di più semplice: mi spendo di più, merito di più. Lavoro di più, guadagno di più. Studio di più, sarò promosso con voti più alti. Questo è il merito: poi, che sia pienamente realizzato è altro tema.
In questo caso, sì, si potrebbe aprire una critica riflessione su come negli ambienti scolastici e lavorativi venga declinata, intesa e (dis)applicata la meritocrazia.
Di recente – vale la pena menzionarlo – si è tentato di sperimentare un sistema scolastico senza voto, orientato ad alleviare ansia e stress agli studenti sottoposti a verifica: succede all’Istituto Morgagni di Roma, dove il voto che segue ad un’interrogazione è stato sostituito da un giudizio ragionato che ha lo scopo di permettere ai professori di condividere con gli studenti le loro aree di miglioramento e gli argomenti da approfondire.
Quest’ultimo sarebbe certamente un aspetto più pragmatico e meno polemico di affrontare il tema del merito, ma, forse, i polemisti di mestiere sarebbero i primi ad essere penalizzati dall’applicazione concreta della logica meritocratica. Quindi? Quindi, dal loro punto di vista, meglio limitarsi a qualche polemica strumentale, che gli permetta una visibilità mediatica, e niente più.
Ancora una volta, dunque, assistiamo al contrasto alle persone e non alle idee, con un malcostume sempre più diffuso di concentrarsi a disapprovare un concetto solo perché espresso da qualcuno a noi antipatico, senza valutare le argomentazioni e la sostanza.
Assistiamo ad una débâcle culturale, intellettuale, politica che davvero - è il caso di dirlo - non ci meritiamo.
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